Così la critica:
Paolo D’Agostini (La Repubblica)
Il film è centrato su Pio Amato (che interpreta se stesso), un adolescente rom. Naturalmente sfrontato e ribelle alle regole e alla legalità, impasto inestricabile di ingenuità e cinismo contemporaneamente presenti nel suo approccio alla vita precocemente disincantato ma senza perdere l'infantilismo e la tenerezza della sua età, Pio fa amicizia con gli africani - con il personaggio interpretato da Koudous Seihon principalmente - che lo accolgono come un fratellino e cercano di proteggerlo mettendolo in guardia dal non mettersi così presto nei guai, ma li tradisce senza battere ciglio compiendo il suo percorso di iniziazione da bambino a uomo, secondo le regole non scritte e ataviche di una comunità senza tetto né legge, corrotta dalla convivenza con la "morale" mafiosa. Forma volutamente intermedia, molto attuale, tra finzione e documentario, il film osserva, accompagna, ascolta. Si immerge, affianca e non giudica, secondo un'estetica e una morale (indissolubili, ricordate, secondo l'estremismo della Nouvelle Vague di cui fece le spese il povero Gillo Pontecorvo ai tempi e per causa del suo Kapò) piuttosto discutibili ma senza il minimo dubbio efficaci nel plasmare un personaggio che non si fa dimenticare. E che sarebbe piaciuto a Truffaut.
Valerio Cappelli (Corriere della Sera)
A Ciambra, il film italiano candidato all’Oscar 2018 diventa un «caso». Per il regista Jonas Carpignano, 33 anni, «è stato uno choc». Il regista era a ballare la tarantella con gli zingari: «Ancora non ci credo».
Non se lo aspettava al punto che a Riace, il paesino dei bronzi vicino alle sue radici, era andato «alla festa di Cosma e Damiano a ballare la tarantella per la notte intera, con tutti gli zingari della Calabria, e mi ero dimenticato della candidatura, non sapevo nulla degli altri in lizza, tanto non ci speravo».
Mauro Donzelli (Coming Soon.it)
Il regista Jonas Carpignano, italiano di nascita e formazione americana, ha trovato il suo universo e non ha intenzione di abbandonarlo. Pochi chilometri intorno a Gioia Tauro, arrivando fino alla tendopoli in cui sono ammassati centinaia di immigrati a Rosarno, per lo più braccianti stagionali africani. Padre italiano e madre afro americana, dopo gli studi negli Stati Uniti si è stabilito in Italia, in quella terra che doveva accoglierlo per girare un cortometraggio, A Chjàna, sulla rivolta dei lavoranti africani di Rosarno. Un lavoro di anni, un percorso di conoscenza basata sul rispetto fra chi intuisce la potenzialità di volti e storie e che ha la fiducia di affidarsi. Solo così si spiega la purezza rara del lavoro di Carpignano, che ritrae Pio e famiglia per quello che sono, che fanno ogni giorno, sotto la pressione della doppia legalità: quella della polizia e quella della comunità rom. Nessuna difesa d’ufficio o retorica dello svuotamento di luoghi comuni radicati, bensì il tentativo, quasi incosciente eppure riuscito, di farci affezionare ai personaggi del film. Neorealismo nobile, costruito intorno alle persone fino a renderle attori credibili, rimanendo narrativamente in binari consolidati.
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