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Lunedì 03 Febbraio Ore 16:15 - 20:15 - 22:30
UN AFFARE DI FAMIGLIA
Manbiki kazoku
(Giappone 2018) di Kore’eda Hirokazu – dur. 121’
Con Lily Franky, Sakura Andò, Mayu Matsuoka, Kirin Kiki, Jyo Kairi, Miyu Sasaki.
Osamu e suo figlio si imbattono in una bambina sola e infreddolita e decidono di portarla nell’umile appartamento dove vivono. La madre seppur riluttante accetta di prendersene cura.
Premi:
Vincitore di 44 premi internazionali più altre 85 candidature, tra i quali la Palma d’Oro al Festival Cannes, 1 candidatura ai Premi Oscar (Film straniero), 1 candidatura ai Golden Globes (Film straniero), 1 César (Film straniero) 1 candidatura ai Bafta, 8 Japanese Academy più altre 5 candidature.
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Così la critica:
Emiliano Morreale (La Repubblica)
Al centro dei film di Kore-eda c'è spesso stato il microcosmo famigliare, le relazioni tra padri e figli. Rispetto agli altri suoi film, però, in cui i conflitti sono quasi increspature, qui assistiamo al progredire una storia con colpi di scena, pur tra le maglie di uno stile sempre quieto: inquadrature fisse, musiche sobrie e melanconiche, prevalenza di campi medi e lunghi; finché nella parte finale si passa a dei primi piani frontali, rivelatori, in una soluzione tutta in levare, magistralmente costruita per ellissi di regia e di sceneggiatura. Non siamo però dalle parti di quei film cinici che si compiacciono di mostrare nidi di vipere, segreti nascosti dietro le mura domestiche. Anzi, è la descrizione di un modo di vivere certo non tradizionale, ma che lui ci mostra come naturalissimo. A suo modo “Un affare di famiglia” è, nel senso migliore, "un film di buoni sentimenti". Solo che questi sentimenti sono opposti ai legami sociali e biologici ufficiali. Una specie di utopia, piena però di zone d'ombra e contraddizioni al proprio interno, anch'esse narrate e accettate pienamente dallo sguardo del regista. Non c'è insomma nemmeno un conflitto schematico, tra il calore di dentro e il gelo di fuori (anche se fuori cade la neve). Comunque, il ritratto della società giapponese, indiretto, è durissimo.
Fabio Ferzetti (L’Espresso)
Il nuovo film del giapponese Kore-e da, classe 1962, meritatissima palma d'oro a Cannes, parte come un sommesso elogio di una vita anarchica e antiborghese per poi introdurre poco a poco, con la discrezione di cui è capace il regista di "Father and Son", una serie di piccoli strappi che minano quel tessuto di vincoli e affetti. Senza rinnegare la critica alle miserie della società consumista, ma nemmeno esaltare un microcosmo in cui nulla è come sembra. La nonna infatti vive di espedienti e ricatti, gli altri sfruttano la sua pensione, la più giovane lavora in un peep show con un distacco che non esclude tuffi al cuore (bello il breve incontro con un cliente diverso dagli altri). Ma è nella seconda parte, da non rivelare, che il film, con le sue immagini calibratissime, svolta in direzioni inaspettate. Dando a questo reticolo di affetti ora soffocati ora esplosivi, formato da tanti punti di vista quanti sono i personaggi, una profondità, per non dire una gravità, che sono davvero un dono. Da non perdere.
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KORE-EDA HIROKAZU
Tokyo (Giappone), 1962
"Nel corso degli anni Kore-eda ha creato uno stile tutto suo, pacato, riflessivo, tant'è che gli è stata appiccicata l'etichetta di nuovo Ozu - anche se lui ha ribattuto di sentirsi più vicino a Ken Loach. La sua estetica si riassume in due frasi: 'I dettagli sono importanti' e 'Non tutto deve avere un significato preciso. Altrimenti soffocheremmo'. La sua capacità è di raccontare con sensibilità storie dolorose, evitando forzature e toni gridati" (Pezzotta, CdSera, 2017). Dopo la laurea in Creative Writing, scrive sceneggiature e romanzi e dirige corti, documentari e spot pubblicitari. Al centro dei suoi primi pluripremiati lungometraggi (‘Maborosi’, ‘After Life’, 'Distance', 'Nobody Knows') c'è la natura, intesa come scenario grandioso nel quale si conclama e si dispiega la debolezza degli uomini. La successiva produzione di Kore-eda ('Hana', 'Still Walking', 'Air Doll') si distacca da questo umanesimo per avvicinarsi a una produzione più commerciale. Il tema della famiglia, già affrontato in precedenti film, diventa prevalente a partire da 'Father and Son' (2013). "Difensore di uno stile controllato e classico, dove i movimenti di macchina sono ridotti all'essenziale e la recitazione tutta indirizzata verso un minimalismo realistico, Kore-eda sceglie un approccio il più possibile controllato. Evita le facili scene madri, riduce al minimo le spiegazioni e le discussioni e affida alla messa in scena il compito di spiegare quello che avviene nella testa e nel cuore delle persone. Tutto filmato con una delicatezza e una sensibilità rare e toccanti” (Mereghetti, CdSera). ‘Un affare di famiglia’ è il suo tredicesimo lungometraggio. Nel 2019 ha diretto ‘La veritè’, il suo primo lavoro girato fuori dal Giappone.
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