Così la critica:
Paolo Mereghetti (Il Corriere della Sera):
Proprio un «certo sguardo», non convenzionale e non prevedibile, è la qualità maggiore di questo film, che inizia come una commedia e poi si apre a più complesse riflessioni. Costruito su una sceneggiatura molto scritta ma talmente rispettosa della realtà delle cose da saper trasformare due attori in credibili pastori e utilizzare le loro esitazioni e le loro difficoltà per dare concretezza e credibilità ai loro personaggi.
Roberto Nepoti (La Repubblica):
Chi pensa al Kazakistan con il demenziale Borat potrà conoscere con Tulpan il volto di quel paese (per noi) misterioso. Sperimentato documentarista, in grado di raccontare nel modo più realistico lo shock di un popolo lacerato tra cultura pastorale e globalizzazione, Dvortsevoy sceglie, però, la forma della parabola. Finito il servizio militare in Marina, Asa torna nelle pianure natali per fare il pastore. La condizione è che si trovi una moglie: ma la ragazza non lo vuole, perché ha le orecchie a sventola. Pare un tema da commedia; invece è un dramma: nel rifiuto si concentra il destino di un popolo nomade costretto a inurbarsi. Un film tanto nobile quanto passatista. Sarà poi vero che la città (invisibile) è l’Inferno, la vita grama della steppa il Paradiso?
Cristina Piccino (Il Manifesto):
Tulpan del lavoro da documentarista, mantiene la necessità di un racconto reale, che vuol dire fisicità del paesaggio, un movimento fluido degli attori che sembrano non professionisti ma “veri” pastori nomadi della steppa Khazaka. Isolamento, fatica, una natura violenta che il regista aveva raccontato nei suoi documentari, sono anche qui elementi fondamentali, quell’orizzonte senza limite, la polvere soffocante che danza contro al cielo, le bestie che si ammalano o fuggono, gli iurta, le tende tradizionali dove si mangia, si canta, si dorme, si fa l’amore, si respira attaccati gli uni agli altri, alla pecora che partorisce l’agnellino...
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