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Lunedì 26 gennaio Ore 16:15 - 20:15 - 22:30
HANNAH ARENDT
(Germania/Israele, 2013) di Margarethe von Trotta dur. 113’
Con Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen
Scappata dagli orrori della Germania nazista, la filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt nel 1940 trova rifugio insieme al marito e alla madre negli Stati Uniti. Come inviata del New Yorker in Israele, Hannah si ritrova così a seguire da vicino il processo contro il funzionario nazista Adolf Eichmann, da cui prende spunto per scrivere “La banalità del male”, un libro che andrà incontro a molte controversie.
Premi:
Vincitore di 5 premi internazionali (più 14 nomination) tra cui Lola d'oro per la Miglior Attrice e il Lola d'argento per il Miglior Film ai Deutscher Filmpreis.
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Così la critica:
Daniela Zanolin (Segno Cinema)
Il film, lontano dai cliché del biopic, è incentrato sulla ricostruzione della battaglia (siamo nei primissimi anni ’60) che la filosofa, esule dalla Germani nazista negli Stati Uniti in fuga da un campo di concentramento in Francia, intraprende per sostenere e difendere, dopo gli “scandalosi” reportages per il “New Yorker” dal processo Eichmann a Gerusalemme, la sua “banalità del male” e l’ipotesi di una sora di corresponsabilità dei consiglio ebraici dei ghetti nell’organizzazione dello sterminio.
Claudio Bartolini (FilmTv)
Tra flashback del passato con Heidegger e feritoie sulla storia - colta nei filmati d’archivio del processo -, Von Trotta recupera una narrazione frontale della quale si è ormai persa traccia, dilatando i tempi fino a farli coincidere con quelli del pensiero e costruendo le inquadrature secondo geometrie rigide, impaginando la narrazione sfruttando al meglio le potenzialità dei carrelli e della camera fissa. Niente fronzoli: l’elaborazione arendtiana di “La banalità del male” necessita di altrettanta, efficace banalità in regia, per poter affidare le chiavi dell’opera a una sceneggiatura che adotta il punto di vista privilegiato e convinto della filosofa per ribadire quanto il male superi l’individuo e lo schiacci sotto il peso di un sistema malato. Dallo smascheramento del collaborazionismo ebraico alla riduzione di Eichmann al rango di «uomo superfluo in quanto tale», Hannah Arendt si avvicina molto alle lezioni televisive di Rossellini giocate in sottrazione, ma solo di orpelli.
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MARGARETHE VON TROTTA - Berlino (Germania), 1942
Margarethe von Trotta è una delle registe più importanti del cinema tedesco. Autrice di film politicamente impegnati, che indagano il conflitto tra dimensione pubblica e sfera privata, ha messo le donne al centro del proprio lavoro. I suoi personaggi femminili brillano per forza, determinazione e coraggio, nella lotta contro un sistema sociale maschilista, che le vorrebbe relegate in spazi soffocanti in un mondo gestito dagli uomini. Von Trotta esplora le motivazioni psicologiche profonde delle sue protagoniste, stabilendo un rapporto privilegiato con le sue attrici, in particolare Jutta Lampe e Barbara Sukowa. Dopo aver seguito corsi di cinema in Francia, intraprende la carriera di attrice con registi quali Rainer Werner Fassbinder e Volker Schlöndorff (suo marito dal 1971). Dopo varie collaborazioni alla regia e alla sceneggiatura, nel 1978 esordisce dietro la mdp con “Il secondo risveglio di Christa Klages”, storia vera di una donna che rapina una banca per salvare il giardino d'infanzia in cui lavora. In seguito la regista firma la cosiddetta Trilogia della Sorellanza: “Sorelle - L'equilibrio della felicità” (1979), “Anni di piombo” (1981, Leone d'oro a Venezia) e “Paura e amore” (1988). Ormai celebre a livello internazionale come esponente femminista di punta del Nuovo Cinema tedesco, dirige in seguito “Lucida follia” (1982), “Rosa L.” (1986), “L'Africana” (1990), “Il lungo silenzio” (1993) e “La promessa” (1994), prima di dedicarsi a produzioni televisive per una ventina di anni. Nel 2003 torna al cinema con “Rosenstrasse”. Tra i suoi film degli ultimi anni ricordiamo “Vision”, film dedicato alla prima suora illuminata e anticonformista della storia.
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