Così la critica:
Simone Porrovecchio (Il Cinematografo)
È un film strano e intrigante: un thriller drammatico con un sotteso di suspense e un tocco soprannaturale. Una sfinge di cui però non si comprende esattamente quale sia il segreto che nasconde.
Paula Beer interpreta Undine che, come suggerisce il nome, (il riferimento è alle creature leggendarie elencate fra gli elementali dell’acqua nelle opere sull’alchimia di Paracelso), ha una certa affinità con l’acqua... Undine è una storia sconnessa, ma sapientemente diretta e magnificamente recitata. Sono belle le immagini fantastiche sopra e sotto l’acqua e i dialoghi serrati. Rogowski porta qualcosa di instabile e pericoloso nella parte e così, in modo più contenuto, fa Beer.
Federico Gironi (Coming Soon)
Raccontare l’amore attraverso il mito (quello germanico dell’Ondina) e la fiaba. Ma anche qualcosa di più complesso, dove la fine di una storia, la sua morte e la sua rinascita, il sacrificio e il sogno, si vanno a intrecciare in modo sottile ma inestricabile con la storia di Berlino, la città prima divisa e poi riunita. E forse anche con quella di tutti noi.
In Undine ci sono i plastici (veri) che di Berlino raccontano la storia urbanistica e architettonica, il passaggio dalla città imperiale a quella metà occidentale e metà socialista, fino alla metropoli del Terzo Millennio. Ci sono enormi pesci gatto, palombari impegnati in saldature, gli occhi azzurri profondi e inquieti di Paula Beer, bravissima del ruolo della misteriosa protagonista, che in fondo altro non è che una donna bisognosa d’amore.
Davide Turrini (Il Fatto Quotidiano)
Un film, quello del tedesco Christian Petzold già adorato per “La donna dello scrittore”, che semplicemente vi rapirà e vi porterà giù in fondo nelle acque profonde di un fiume per respirare in eterno un amore totalizzante. Un’esperienza visiva e spaziale trascinante, gocciolante, inumidita, tattile; in direzione opposta allo scontato sogno dell’aria, del cielo, delle stelle; contrastante rispetto alla materialità del vivere e pulsare terreno...
Petzold, anche sceneggiatore, cesella un racconto assemblato su scene essenziali e penetranti, linee sottili di dialogo e di sguardo, tratti descrittivi rapidissimi e istintivi (la telefonata risolutiva in sottofinale è dolorosissima), materia spessa che taglia in due la carne degli amanti (si veda l’uso dei treni, anzi dei vetri e delle porte dei treni). Scelte che fanno letteralmente correre un film minimalista al ritmo di un melò da grande produzione.
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