LA LEGGE DELLA TRINCEA
In
Lettere da Iwo Jima, seconda parte del dittico di Eastwood dedicato al celebre episodio delle seconda guerra mondiale, l’isola del pacifico, oggetto della contesa fra due eserciti, viene trasfigurata e privata dei colori naturali dalla fotografia di
Stern, che desatura l’immagine: morire significa, dicevano i poeti greci, non vedere più la luce del sole e l’agonia dei soldati giapponesi, sacrificati per ritardare di qualche giorno l’invasione statunitense, si svolge in un inferno sotterraneo in bianco e nero. Di fatto nel ricostruire la battaglia nella prospettiva del “nemico”
Eastwood si è concentrato, applicando la lezione del maestro
Don Siegel, sulle ultime ore del disperato assedio di un manipolo di soldati abbandonati al loro destino: in
Flags of Our Fathers occorreva lasciare il campo dello scontro, ripercorre le orme del ritorno in patria dei vincitori, svuotare dall’interno il mito di un falso trofeo. Al contrario i vinti non hanno avuto futuro, i loro corpi sono rimasti sepolti nelle grotte, la voce di alcuni è rimasta in poche scabre righe su fogli sbiaditi; Bastava allora riportarne in vita la testimonianza; strappare all’oblio e alla falsità della propaganda di parte gli eventi nella loro oggettività è missione di un cinema moralmente impegnato: non c’è giustizia nel silenzio o nella menzogna, non c’è verità se essa non ha avuto dimora nel cuore degli uomini. Fedele ai generi tradizionali
Eastwood, violentandone le convenzioni, ne scopre l’anima, svelandone le contraddizioni implicite: al centro di ogni film di guerra vi sono imprese eroiche, combattenti coraggiosi sacrificano generosamente la vita per la patria o per gli ideali e di fatto nel dittico su
Iwo Jma gli americani, dopo aver conquistato il colle
Surabachi, vi piantano la bandiera, i giapponesi difendono fino all’ultimo uomo la postazione. Ma lo scavo nel profondo porta al rifiuto della retorica e al rispetto assoluto di chi ha vissuto gli eventi: alla fine del lungo viaggio nella storia si torna con la fiducia cieca nell’esistenza degli eroi, ma con la certezza che essi siano tali, proprio perché lo è suo malgrado persino chi diserta. Il vero leit-motiv della partitura bellica in due movimenti è allora il dolente e misconosciuto eroismo dell’uomo comune: la trincea è esperienza devastante, i trionfatori prolungano nel tempo la tortura e, dopo aver perso l’anima, ne muoiono a distanza di anni, gli sconfitti chiudono gli occhi, immaginando un domani. Il suolo sacro degli uni conquistato dagli altri è in realtà un nulla, un luogo maleodorante ed insano, su cui rimbalzano la miopia e il cinismo di chi, ai vertici della scala sociale, dà ordini: la legge delle trincea sta però altrove, nella solidarietà di chi ti combatte accanto in nome di quel niente ed è lui che vuoi salvare ed è lui che ti chiuderà le palpebre piangendo per te...
TITOLO: Il titolo è un riferimento alle lettere scritte dal generale Kuribayashi (uno dei personaggi del film) alla moglie, durante la permanenza negli Stati Uniti negli anni ’20 e ’30, che hanno ispirato il film. Tuttavia si rileva in esso la contrapposizione alle bandiere oggetto di
Flags of Our Fathers: i vincitori immortalano i loro falsi trofei, i vinti consegnano la memoria a lettere sepolte sotto la sabbia. Nella versione statunitense dell’evento
Eastwood decostruisce un mito, in quella nipponica invece lo dissotterra dalle grotte di
Iwo Jma. L’operazione filologica di recupero del passato porta, partendo da opposte direzione, allo stesso risultato: quando parliamo di eroi parliamo di uomini comuni, americani o giapponesi, misconosciuti dalle verità parziali dei libri di Storia. Esiste del resto una tradizione di epistolari scritti da condannati o prigionieri: la scelta di utilizzare una fonte di tale natura come filtro degli eventi consente a Eastwood di rivisitare il genere bellico/storico da una prospettiva soggettiva e intima.
Augusto Leone
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