PER SEMPRE CONTRO
Daniel Bruhl pare avere una missione: raccontare al pubblico la storia europea del secolo scorso, mettendo in luce fatti e storie, piccole o grandi, affinché non vengano dimenticate. Ha iniziato nel 2003 con Goodbye Lenin!, in cui veniva raccontata con ironia la caduta del muro di Berlino. Nel 2005 è stata la volta di Joyeux Noel - Una verità dimenticata dalla storia, che raccontava un episodio dimenticato della prima Guerra Mondiale che vide coinvolte le truppe francesi, tedesche e scozzesi. Il 2007 è invece è l’anno di Salvador 26 anni contro.
Il film, diretto da Manuel Huerga, racconta la storia di Salvador Puig Antich, ultima vittima della dittatura spagnola di Francisco Franco. Studente impegnato, negli anni ’70 decide di non essere più spettatore immobile dell’ingiustizia che lo circonda e fonda con altri compagni il Movimiento Iberico de Liberacion (Mil). La lotta diverrà presto armata e la repressione della polizia giungerà implacabile, dopo una lunga serie di rapine in banca, fughe all’estero, ritorni, amori contrastati e difficoltà relazionali in famiglia (specie con il padre). Ma la morte del ragazzo (avvenuta il 2 marzo 1974, quando aveva solo 26 anni) lo trasformerà in un simbolo di libertà e il suo messaggio sarà assoluto.
La prima parte del film, a dire il vero, funziona solo in parte: non viene adeguatamente motivata l’azione di Salvador e dei suoi compagni che li porta in breve a trasformarsi da studenti politicamente impegnati in ribelli datisi alla macchia, rapinatori di banche (per finanziare la lotta operaia) ricercati dalla polizia franchista perché diventati troppo pericolosi. Il Mil viene rappresentato con una lunga serie di azioni politiche, fotografate e musicate come se si trattasse di un videoclip, con una leggerezza che stona (lo scoppio di risa alla prima rapina è sì indicativo della sprovvedutezza dei militanti ma pare anche esagerata), e con un ritmo troppo serrato che non permette la riflessione e l’immedesimazione. La musica scelta per accompagnare le immagini, in questa prima metà, è sicuramente il ritratto di una generazione e dimostra un ottimo gusto del selezionatore: tra gli altri, segnaliamo Bob Dylan, Jethro Tull, King Crimson, la splendida Suzanne di Leonard Cohen (canticchiata da Salvador e da una delle sue conquiste amorose). Queste scelte del regista (Huerga, qui al suo primo lavoro di rilievo internazionale) sono però uno degli aspetti meno felici del film: le scene che accompagnano sembrano più video musicali che parti di una storia, l’impressione è che siano state scritte quasi come dei pretesti per poter inserire questo o quel brano musicale.
La chiave di volta arriva a metà pellicola, dallo stupido “incidente” che mette la polizia in grado di stringere in una morsa senza via d’uscita Salvador. L’incarcerazione, il processo, la reazione di familiari e amici, la lotta dell’avvocato, la condanna a morte, l’esecuzione: tutti questi eventi si susseguono in un crescendo di emotività che non diventa mai fine a se stessa anche nella lenta preparazione dello strumento di morte, la garrota (momenti che mettono i brividi, letteralmente), così freddamente rappresentata. Nello stesso modo venogno tratteggiate la dittatura in tutta la sua potenza (anche se agli ultimi scatti, un anno dopo quel fatto Franco morirà), la violenza e l’assurdità della pena di morte, la voglia di giustizia che si scontra con il potere cieco. Il momento più bello, o almeno uno dei più commoventi, è il racconto che una delle sorelle di Salvador fa al fratello, nelle ultime ore prima dell’esecuzione, di un nuovo film che dice lei, chissà quanto convinta “sicuramente vedrà appena fuori di prigione”, I quattrocento colpi di Francois Truffaut (altra storia di un ragazzo contro e di una ribellione, una visione imprescindibile). Il parallelo tra la storia del ragazzo protagonista del film francese e la situazione del condannato a morte non può non toccare e quel racconto accompagna gli spettatori verso la fine, che tutti quanti vorrebbero in fondo al cuore che fosse diversa. Fino all’ultimo secondo ci si aspetta che il telefono squilli, che qualcosa succeda e che quella morte non sia inevitabile. Che la Storia, per una volta, possa essere cambiata a posteriori.
La pellicola ha già saputo meritare importanti riconoscimenti, tra cui il Premio Goya per la migliore sceneggiatura non originale, il premio Ondas 2006 e il premio Barcelona de Cine, ed è stata inserita lo scorso anno nella sezione Un certain regard al festival di Cannes e nel Focus on World Cinema a Montreal. Un film politico, che ha però in questo aspetto un altro dei suoi punti deboli: se la parte finale sulla pena di morte è molto efficace e riuscita, non lo è invece diversamente la prima, dalla quale non è affatto semplice forse è proprio impossibile capire effettivamente le motivazioni politiche che spingono il Mil a comportarsi in quel modo (tanto che alcuni ex membri effettivi del vero Movimiento de Liberacion hanno fatto avere alla stampa iberica un lungo comunicato in cui si dissociano dal messaggio della pellicola, trovandolo piatto e distorto).
Carlo Griseri (www.cineboom.it)
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