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Giulio Scarpati
Regista, sceneggiatore, critico

Principali riconoscimenti:
1994 David: miglior attore per Il giudice ragazzino

Filmografia scelta:
2007 L'uomo della carità (TV), di Alessandro Di Robilant
2003 Ultima pallottola (TV), di Michele Soavi
2002 Cuore (TV), di Maurizio Zaccaro
1998 Un medico in famiglia (TV), registi vari
1996 Cuori al verde, di Giuseppe Piccioni
1995 Pasolini, un delitto italiano, di Marco Tullio Giordana
1993 Il giudice ragazzino, di Alessandro Di Robilant
1991 Chiedi la luna, di Giuseppe Piccioni
Il giudice ragazzino
Un medico in famiglia
a teatro
INTERVISTA ALL’ATTORE GIULIO SCARPATI

In occasione del suo nuovo spettacolo teatrale “Troppo buono” incontriamo l’attore Giulio Scarpati, noto al pubblico televisivo soprattutto per la serie di successo “Un medico in famiglia”.

Inizi come attore teatrale alla fine degli anni ‘70, per poi passare al cinema. Ci puoi raccontare come hai iniziato a fare cinema e com’è stato il passaggio tra teatro e grande schermo?
A volte capitava che venivano a vedermi a teatro ed un regista mi chiedeva di fare una parte in un film. È stato un bel passaggio, ne ho fatti tanti di film: Chiedi alla Luna con Margherita Buy, Il giudice ragazzino... insomma tante esperienze di cinema. Però il teatro l’ho sempre ritenuto il “top”, anche quando ho cominciato a fare tanti film ho sempre cercato di tenermi uno spazio per il teatro e sono e riuscito a fare entrambi. Poi per ultima è arrivata pure la televisione e… lì ha fatto scopa.

Hai citato Il giudice ragazzino, forse il tuo più grande successo con il Premio di Donatello come migliore attore. Quanto ha influito questo film sulla tua motivazione e sulla tua carriera professionale?
Sai, quando interpreti un personaggio così importante, così forte, è chiaro che ne resti coinvolto. Quando mi sono visto nel film - mi ricordo la proiezione al Festival di Berlino - fu un’emozione enorme perché il tuo lavoro accumulato tutti i giorni finalmente lo vedi compiuto. Il cinema quando è fatto bene è una grandissima esperienza, soprattutto quando lo vedi in sala con il pubblico perché lì ti rendi conto di quello che hai fatto, vedi che il pubblico risponde… Ancora adesso mi chiamano da Canicattì, da Agrigento per ricordare Rosario Livatino, il legame è talmente forte, anche con i parenti, che è rimasto nel tempo.

Il giudice ragazzino non è l’unico tuo film impegnato che racconta di una drammatica storia vera, penso ad esempio a Pasolini, un delitto italiano. Quanto il cinema è importante per sensibilizzare il pubblico e non far dimenticare determinate storie?
Purtroppo con l’andar del tempo il cinema ha perso questa sua caratteristica e oggi è più la televisione a fare questo lavoro. L’impegno civile era una caratteristica del cinema italiano, penso a Il giudice ragazzino, penso a Rosi e il suo Le mani sulla città, a tanti altri film di tematica sociale… Un po’ la televisione ha sottratto al cinema queste tematiche perché molti esercenti si sono convinti che non interessino al pubblico e che quindi serva più una deriva verso la commedia. Infatti le commedie in genere vanno meglio rispetto ai film di impegno: questo è dovuto forse a un cambiamento di gusto e a una disabitudine ad aver prodotti di un certo spessore.

È per questo che nell’ultima parte della carriera ti sei dedicato quasi totalmente alla televisione?
Anche perché le occasioni del cinema erano più standardizzate, meno stimolanti e per cui alla fine preferivo fare Don Luigi Di Liegro che è una fiction particolare, con un regista come Alessandro Di Robilant, lo stesso de Il giudice ragazzino quindi con un legame con il cinema, perché mi sembrava che mi arricchisse di più. Poi certi film purtroppo non si fanno proprio: molte volte i progetti a cui tengo non vedono la luce e vanno invece avanti delle sceneggiature scadenti. Per questo mi sto dedicando alla televisione, anche se spero che ovviamente il cinema torni ad occuparsi di questi temi, a fare un’opera non soltanto di denuncia ma di approfondimento. Anche la televisione può fare approfondimento ma il cinema ha una chance in più, è un approfondimento più libero. La televisione è soggetta a vincoli di racconto, si rivolge ad un certo pubblico, il cinema potrebbe rischiare un po’ di più. Ecco, dovremmo rischiare un po’ di più!

Nel 1998 interpreti Lele Martini nella serie di grande successo Un medico in famiglia. Poi all’apice della notorietà, dopo due stagioni di successo, decidi di lasciare la serie… ci vuoi parlare delle motivazioni che ti hanno spinto a farlo?
Ormai ero praticamente identificato con Lele. Sembrava che non avessi fatto tanto teatro, tanto cinema, sembrava che fossi nato professionalmente con Lele. Allora ho voluto mettere un po’ la distanza. Adesso dopo dieci anni sono tornato ma mi sono sentito più tranquillo perché ho fatto anche altre esperienze. Mi ero divertito a fare altre cose, ora il successo di Lele non è così invadente, cerco di tenerlo a bada. Anche questo spettacolo è un modo di ironizzare sul meccanismo televisivo.

Quello che dici nello spettacolo è vero, da Un medico in famiglia in poi hai interpretato praticamente sempre personaggi “buoni”…
Sì, addirittura due preti! Purtroppo figure diverse, magari più laide, si stenta a farle perché c’è oggettivamente un clima culturale un pochino più dimesso rispetto a qualche decennio fa.

Per concludere, a cosa stai lavorando? Progetti per il futuro?
Questo spettacolo lo porterò fino ad aprile/maggio. Poi ho un progetto per la TV con un tema drammatico che spero si faccia: è una cosa un po’ particolare e non so se la televisione ha poi il coraggio di affrontare certi temi. Io spero di sì perché ci tengo molto. Poi c’era un film italo-francese di cui aspettiamo il finanziamento e… siamo già belli appesi. Dovevamo iniziare a gennaio ma l’abbiamo già rinviato, speriamo che riesca. Certe volte i progetti si rinviano e non sai neanche se ce la faranno a vedere la luce.

Marco Frassinelli

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