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LADRI DI BICICLETTE
di Vittorio De Sica - dur. 92' Italia 1948

Con Lamberto Maggiorani, Lianella Carell, Elena Altieri, Enzo Staiola, Vittorio Antonucci.
a
ANALISI DEL FILM
Considerato un capolavoro del neorealismo italiano, la pellicola che si avvale della partecipazione di attori non professionisti (solo Lamberto Maggiorani diverrà improvvisamente, da operaio qual’era, attore di fama internazionale interpretando, con viva sensibilità psicologica e intensa drammaticità, il personaggio del protagonista Antonio Ricci), configura una sorta di affresco della Roma postbellica nella quale l’interesse è tutto per gli ambienti degradati e per le situazioni di atroce miseria.

Il film, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Luigi Bartolini (1946) e attraverso la sceneggiatura firmata da Cesare Zavattini, ottiene un clamoroso successo e l’anno successivo viene premiato con l’Oscar (il secondo per De Sica dopo quello ottenuto per Sciuscià nel 1947) quale miglior film straniero. Un paradosso questo, vista la pessima accoglienza della prima al Cinema Metropolitan di Roma dove il pubblico rivoleva addirittura indietro i soldi del biglietto.

Di tutt’altro tenore gli esiti della proiezione a Parigi con la presenza di tremila personaggi della cultura internazionale. Entusiasta e commosso, Renè Clair abbracciò al termine del film De Sica dando il via a quel successo mondiale che ebbe in seguito la pellicola e con i cui proventi il regista riuscì a pagare i debiti contratti con la precedente realizzazione di Sciuscià.

Ancora Andrè Bazin definì, in un suo saggio dal titolo “De Sica le metteur en scéne“, il film come “l’espressione più pura del neorealismo (…), il centro ideale intorno al quale gravitano entro la loro orbita particolare le opere degli altri grandi registi“. A lui piacque un certo lavoro minuzioso, meditato, elaborato, e tuttavia teso a dare l’impressione del caso, a dare alla necessità drammatica il carattere di una semplice contingenza, anzi a “fare della contingenza la materia del dramma“.

Già dall’inizio, la pellicola desichiana comunica un monocorde sentimento di amarezza evidenziato in particolare dalla mimica di Antonio e Bruno, soprattutto dopo il furto della bicicletta, e dalla colonna sonora di Alessandro Cicognini basata su un unico, intenso e malinconico motivo nel quale uno strumento notoriamente mesto come il clarinetto la fa da padrone. Intorno a loro la realtà del paesaggio italiano del dopoguerra, ritratta con indubbio talento da De Sica, erede naturale sul piano della commedia del suo maestro Mario Camerini (cfr. G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, Torino, Einaudi 2003, pag. 95).

L’inizio delle sequenze è dato dai miserabili caseggiati operai dove vivono i protagonisti (zona di Valmelaina) per passare subito dopo al Monte dei pegni, luogo di una silenziosa pena ove le significative immagini (l’uomo che scala una montagna di lenzuola impegnate) esprimono una realtà di tremenda miseria e di difficoltà inarrivabile. La visita alla “Santona“ di via Paglia, una sorta di credo per la gente povera e superstiziosa, è l’immagine che accomuna classi sociali differenti, immagine comunque che, anche in questo caso, emana angoscia e costernazione tanto da costringere anche il restio Antonio a ricorrervi dopo aver fatto desistere in un primo tempo la moglie Maria.

De Sica pare indeciso tra il raccontare una storia individuale e il farne un mero pretesto per dipingere un fondale: una significativa protagonista del film è indubbiamente la città con i suoi abitanti. E’ una Roma che, rappresentata nel bianco e nero della pellicola, appare nella sua grandezza non deturpata e resa piccola dall’informe ammasso di veicoli e di varia umanità che oggi la caratterizza. Le sue strade e le sue piazze appaiono semivuote, larghe e libere da tutti quelli orpelli che nascondono la sua grande architettura. Anche i rioni del centro, quelli ancora proletari, appaiono belli nella loro struttura, povera e malandata ma che richiama l’aspetto, quasi medioevale, di quelli che erano nelle età passate, i quartieri della città. Perfino l’estrema periferia dei palazzoni popolari, ancora più campagna che città, conserva una forma architettonica genuina, che si riflette nelle fattezze e nei modi dei suoi abitanti (cfr. Il Cinema, Grande storia illustrata, Vol. III Novara, De Agostini 1981).

Già dalla scena del primo giorno di lavoro, si evince la decisione drammaturgica del regista: l’attacchino è alle prese con la sua “Gilda“ (la locandina del celebre film con Rita Hayworth), la mdp lo ritrae di fianco intento ad incollare il suo manifesto, poi insieme a due ragazzini che chiedono l’elemosina, infine di colpo essa abbandona il protagonista per seguire questi ultimi; è evidente l’interesse desichiano per il quadro sociale che nel caso specifico sopravanza ed accantona con evidenza la vicenda primaria.

Ma è l’intera pellicola ad essere fortemente distratta dai luoghi e dal paesaggio: i mercatini di Piazza Vittorio e di Porta Portese, la mensa dei poveri, il rione malfamato ed il piazzale fuori dallo stadio sono veri e propri coprotagonisti che si impadroniscono del racconto e lo mettono tra parentesi. E delle tipologie del paesaggio ne parla anche Sandro Bernardi nel suo testo: “Antonio Ricci parte dai casamenti squadrati e grigi di Valmelaina, nuovi e già vecchi, moderni ma anche sporchi e cadenti, con una campagna brulla dietro le quinte del progresso, per attraversare un verminaio pullulante di miserie, per compiere una discesa progressiva agli inferi, dal mercato delle biciclette alla mensa dei poveri, alla santona di via Paglia, al bordello sguaiato, al suicida del Tevere, giù giù fino alla folla di malversati che circonda il ladro preso nelle sue convulsioni, vere o finte, alla minaccia del linciaggio. (…) Tutto è vero, autentico (…) e la cinepresa camminando accanto ai due protagonisti scopre che questo paesaggio urbano, forse il più terrificante della storia del cinema, ha qualcosa d’intermedio fra città e formicaio, fra natura e cultura“ (cfr. Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio 2002, pagg. 78-79).

Dopo aver subito il furto, Antonio va a cercare aiuto alla polizia e al partito (presumibilmente una sezione comunista): il commissario di P.S. lo maltratta e lo denigra allontanandolo mentre ogni energia delle forze dell’ordine pare essere impegnata per arginare i comizi delle sinistre (vedi le auto dei celerini che si preparano per andare a presidiarne uno); per contro i compagni, capitanati dal fido Baiò (l’amico netturbino Baiocco) si dichiarano pronti a dargli una mano cercando la famosa bicicletta nei mercatini frequentati, secondo tradizione tuttora vigente, dai ladri e dai balordi. Sembra trasparire così con forza anche un taglio ideologico alla vicenda: la polizia è asservita agli interessi delle classi benestanti mentre l’unica speranza per la gente misera proviene dagli ambienti di sinistra e più precisamente comunisti.

Le sequenze del mercatino di Piazza Vittorio illustra una realtà vivace dove trionfa la furbizia individuale mentre a Porta Portese, sotto la pioggia, un gruppo di seminaristi di lingua tedesca (tra i quali una giovanissima interpretazione del futuro regista degli spaghetti western Sergio Leone) si affianca a Ricci creando, da parte di De Sica, il primo di una serie di due affondi anticlericali con i quali l’autore prende le distanze dal mondo cattolico. Di seguito, infatti, il lungo e caotico episodio della mensa dei poveri successivo al secondo inseguimento del ladro e all’incontro con il suo complice costituisce una critica tagliente dell’ipocrisia cattolica: un gruppo di borghesi benestanti e bigotti passa la mattina domenicale a sbarbare povera gente per poi obbligarli ad ascoltare rosari e prediche in cambio di un piatto di minestra.

La critica antiborghese invece diviene culminante nell’episodio della trattoria dove il confronto tra Bruno Ricci, un sano ragazzino proletario e lavoratore (il piccolo infatti lavorava già presso un distributore di benzina dove veniva accompagnato ogni mattina dal padre) ed un ragazzino antipatico e impomatato, vuole ricordare l’esistenza di un duro conflitto di classe.

Dopo l’interludio sociale e la conferma da parte del cineasta di un racconto cinematografico neorealista come luogo privilegiato dell’ideologia, la storia torna al centro dell’interesse con lo scontro tra Ricci e il ladro finalmente ritrovato. Quest’ultimo però si rivela una sorta di doppio del protagonista: è un disoccupato, un poveraccio che vive in una stamberga simile alla sua ed inoltre è anche malato di epilessia. Ricci, costretto anche dalle circostanze, lascia perdere e arriva al piazzale dello stadio.

Contagiato dalla frequentazione di tanta malavita e preso dalla disperazione, egli diviene a sua volta un ladro nella più bella e commovente sequenza del film: il tentato furto, lo sguardo attonito e amareggiato di Bruno, l’umiliazione del padre, la musica di Cicognini a tutto volume, è un momento di alta poesia cinematografica.

Lo stile visivo del film privilegia i totali e i campi lunghi per due motivi: da un lato la realtà sociale in cui si muove questa disgraziata umanità viene resa nella sua complessità, dall’altro la modesta capacità espressiva degli attori improvvisati sconsiglia un ampio uso di piani ravvicinati. Di questa pellicola eterogenea ed episodica che annovera alti e bassi, rimangono nella memoria, oltre alla magnifica sequenza conclusiva, soprattutto gli scorci urbani di una Roma periferica e sconosciuta, costellata da edifici massicci e da paesaggi, ora spazzati dalla pioggia, ora illuminati da un sole accecante che produce immagini fortemente contrastate.
Antonello Motosso
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